Stanotte è stata la prima che ho dormito. Un sonno strano, profondo, senza sogni.
All’alba, quando mi sono svegliata, ci ho messo un po’ a capire dov’ero.
Una camera familiare ma non la mia. Una luce familiare ma non la solita.
Sono a casa dei miei e subito mi è tornato in mente tutto.
Sono scesa in cucina a fare colazione e la luce mi ha abbagliato. Chissà, magari se avessi finito in tempo di lavorare, avrei potuto fare una piccola passeggiata. Magari a mare.
No, da oggi no. Né oggi né domani.
Durante la doccia mi sono messa a pensare a quella frase:
Quando è stata l’ultima volta che hai fatto una cosa per la prima volta?
Ricordo che l’avevo letta su un muro in città e mi aveva colpito.
L’avevo persino postata su Instagram.
Trasposta a oggi avrebbe risuonato più o meno così
Quando è stata l’ultima volta che hai fatto una cosa?
E subito ho pensato al giorno prima, al mare arrabbiato, al sole sul muretto, ai parenti e gli amici tutti insieme nella casa al mare. Al giardino, al prato secco prima di esplodere in primavera, ai centimetri della veranda che conosco perfettamente e che mi hanno visto crescere. Un testimone muto della storia della mia famiglia.
E poi il paesino, i baretti aperti anche se c’era vento, il faro.
E il mare, ancora, tutto intorno.
Questa è stata una delle mie ultime volte.
E si, perché vestendomi per andare a lavoro (dovremmo prima o poi trovare un nuovo modo di dire, perché andare a lavoro implica uno spostamento che in smart working non si fa), ho pensato all’ultima volta che ho salutato le mie due gatte e chiuso la porta di casa credendo di tornare dopo cinque giorni; l’ultima volta che ho salutato Fabio che doveva prendere l’aereo mentre io avevo deciso di restare dai miei. Così, per non stare poi sola a Milano. Mica per altro.
Tante ultime volte e altrettante prime volte.
La prima volta che ho sentito che il remoto virus era finalmente riuscito ad arrivare in Italia, a 20 chilometri da casa.
La prima volta che, andando a piedi per la città, mi guardavo intorno cercando di capire se la gente stava bene o aveva l’influenza.
La prima volta che, sul bus, ho usato la mascherina: l’avevo buttata nello zaino all’ultimo momento pensando che era inutile ma poi la sciarpa su naso e bocca non mi faceva respirare e molti erano quelli che la indossavano sicché non mi sono neanche tanto sentita a disagio.
La prima volta che ho avuto paura di prendere un aereo non per paura di volare, quanto per la paura di non so cosa, di qualcosa che comunque non riuscivo a vedere.
Che poi, effettivamente, paura non è neanche il termine esatto. Perché, come ho sentito dire a qualcuno, si ha paura di qualcosa di definito, si è angosciati di qualcosa che non si conosce.
Quindi angoscia. Questo è quello che ho provato e che provo.
Mentre aspettavo che il computer si accendeva, ho deciso, per questo mio primo giorno di confinamento, di darmi delle regole e la prima è iniziare a dare il giusto nome alle cose.
Visto che ora c’è tutto il tempo per pensare e riflettere.
Visto che da oggi siamo soli se non siamo online.
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Vengo da un piccolo paese in pianura circondato da dolci montagne. Le mattine qui sono placide: niente clacson, né auto che sfrecciano, dalla finestra non si vede gente che si affretta per andare a lavoro.
Però, anche qui, ogni mattina ha una sua voce: gli uccellini cinguettano, il camioncino della frutta che va di casa in casa e il cui altoparlante sveglia anche i più pigri, il portoncino del palazzo che viene sbattuto più volte dai bimbi che vanno a scuola a piedi, mia mamma che si prepara per uscire.
Oggi però la calma è surreale.
Un raggio di sole mi acceca e corro a chiudere le tende.
Guardo la sveglia pensando sia ancora troppo presto. Sono già le 8 e non sento niente.
Scendo giù per la colazione, i miei dormono ancora.
Non va bene. Non vorrei fosse il segno che si stanno lasciando andare.
Io sono abituata a stare molto in casa, so che la regola d’oro la mattina è alzarsi, lavarsi e vestirsi di tutto punto (tranne le scarpe), sennò prende lo sconforto e ci si deprime.
E ora non ce lo possiamo proprio permettere.
La depressione abbassa le difese immunitarie quindi dobbiamo essere contenti. Proprio ora. Che beffa.
Mentre bevo il lungo caffè, sento voci fuori e mi affaccio.
La signora di fronte, mai vista prima d’ora, parla con una vicina, poi si aggiunge una voce familiare proprio sotto di me, è mia madre. Allora anche io apro la finestra, saluto, mia mamma dal piano di sotto mi presenta e resto a parlare con loro per un po’.
Tutti abbiamo il viso verso il sole. Ci si lamenta che non si può andare in campagna e a quest’ora chissà gli alberi di arance come saranno carichi, la spesa è stata fatta ma è dovuto andare solo il marito e, ovviamente, ha combinato dei pasticci.
Con un po’ di timidezza, si ammette che stare a casa è un po’ dura ma per fortuna ci sono un sacco di faccende da fare e poi, bisogna cucinare.
Chiudo la finestra e inizio la mia giornata di lavoro.
Oggi faccio da tutor per un corso on line di più di trenta persone, ci siamo preparati a lungo per questo giorno, devo dare il massimo e stare concentrata.
E non è facile perché qualsiasi device interroghi, mi restituisce un bollettino di guerra.
Decido così, per la prima volta seriamente, di dovermi schermare: mi stacco dal quotidiano, prima che la lezione inizi ascolto un podcast in francese, di counselling, l’avevo iniziato tempo fa per occupare il tempo che mi portava a lavoro in bicicletta. Non volevo perdere il mio francese.
Poi mi blocco: mentre i partecipanti accedono alla classe on line, inizio a pensare che, forse, ho perso la possibilità di andare in bicicletta. Penso alla cantina piena all’inverosimile, al fatto che fra poco avrei tirato fuori la mia carissima Bianchi tutta ruggine, alla felicità senza età che mi pervade la prima volta dell’anno che la inforco e faccio un giro per la città.
E oggi penso solo alla parola libertà, a quanto è facile darla per scontata. A come è facile perderla.
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Ho pochi vestiti qui. Sono consapevole che in questo momento c’è altro a cui pensare, ma oggi mi sono fissata su questo.
Che poi, in realtà, non è neanche questo. E’ la quiete apparente a colpirmi.
Mi sento come all’interno di un libro di Murakami.
Sono a casa dei miei, come tante altre volte. C’è il sole, come tante altre volte. Mia mamma cucina, come tante altre volte.
Una strana attesa aleggia nell’aria e poi: la porta di casa, il citofono, le telefonate. Queste tre cose ci mandano in panico, se uno di noi si avvicina ad aprire la porta di ingresso, gli altri due, non importa in che camera siano, urlano “che succede”? Idem se qualcuno citofona o telefona.
Sono consapevole che il mio cervello sta mettendo in atto tutta una serie di difese. Veri e propri paraocchi. Vedo, leggo, sento il bollettino di guerra ma mi focalizzo su stupidi dettagli: la camicetta troppo bianca della conduttrice in tv, il refuso ortografico sull’articolo on line, l’accento del giornalista. Tutto, pur di non non sentirmi in guerra.
Tutto pur di non paragonarmi a un topo in gabbia.
Le uniche cose che recepisco sono: lavarsi le mani sempre per due “Tanti auguri a te”. Stare in casa.
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Ho iniziato a dormire con la luce spenta, finalmente dopo giorni.
E’ sorprendente quanto è forte la nostra capacità di adattamento. E quanto è terrificante.
Ci si abitua, semplicemente.
Ma questa calma apparente nasconde un prima e un dopo.
Tutti ne usciremo cambiati quindi è necessario condividere quanto più possibile questo momento.
Questo isolamento rafforza alcuni legami e ne cancella altri, inevitabilmente.
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Da qualche giorno avevo un pensiero: arrivava ma non riuscivo ad afferrarlo che andava via.
Poi dal nulla, il pomeriggio dopo aver finito di lavorare, sono andata su internet alla ricerca di un volo ed ecco, non ce n’erano.
Quel pensiero impalpabile si era quindi trasformato in disagio: la consapevolezza di essere bloccata in casa, su un’isola, senza la possibilità, volendo, di tornare a casa.
Volere, questa era la parola stonata.
Non si trattava più di volere ma di potere.
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Dovrei essere al massimo stamattina, ma non lo sono. Faccio i miei esercizi sperando di carburare.
In condizioni normali scenderei sotto casa a bere un espresso al bar, prendere un po’ d’aria, camminare mi aiuterebbe. Solo l’idea, oggi, è un pensiero proibito.
Mi rendo conto di dover subito rimediare a questo disagio perché potrebbe essere una bomba a orologeria così inizio a farmi spazio lentamente: giro per casa, guardo attenta come a prender le misure, inizio a concepirla come uno spazio aperto, un quartiere, con camere che sono vie, zone più lontane e altre più di passaggio.
Non trascuro nessun angolo, sfrutterò tutto se necessario.
Così vado in cucina a farmi quell’espresso. Decido di sedermi fuori in balcone a berlo, come avrei fatto al bar sotto casa in città.
Spero di finire prima a lavoro. E’ pur sempre venerdì. Cerchiamo di mantenere abitudini che ormai sono slegate dalla realtà, il week end per esempio o il ciclo veglia sonno.
E’ strano come ognuno si aggrappa alla propria quotidianità cercando di preservarla come può.
Mia mamma ha deciso di fare la pizza stasera e pizza sia.
Facciamo insieme l’impasto nel pomeriggio e c’è tutto il tempo del mondo.
Mentre è in cottura salgo in camera. Il suono della Tv dal soggiorno mi dà fastidio quindi decido di mettermi le cuffie e ascoltare un po’ di musica. A sorpresa opto per Chopin. Mi sono sempre trattenuta dal farlo, non so che effetto potrebbe avere su di me.
E infatti subito compare un groppo in gola, gli occhi si riempiono di lacrime ma io ho un compito da portare a termine. Finisco di scrivere la mia giornata.
Trafelata e stanca, inizio a sentire delle mancanze e sono io che manco a mia volta.
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I sabati, come anche le domeniche, tendono a somigliarsi tra loro anche in questa situazione: oggi, attorno a me sento rumori diversi da quelli della settimana. Chi pulisce i vetri, chi parla al telefono, tanti sono fuori sul balcone. Nessuna macchina in giro.
La sensazione è che oggi ci sia meno attesa e più calma.
Una mattina di tregua.
Mi sveglio un po’ più tardi del solito, mia mamma sta lavorando al pc.
Oggi avrebbe avuto scuola quindi sta preparando i compiti che poi caricherà sulla piattaforma on line.
I miei hanno smesso di essere inquieti, hanno capito che non serve a nulla. Sono diventati collaborativi e iniziano a capire come gestire il loro tempo libero.
Mio papà legge, mia mamma ha ricominciato a stare sempre al telefono. Insomma, la normalità o quasi.
Mi metto in balcone. E’ quasi primavera, il sole splende e voglio approfittarne: sono convinta che il sole faccia bene al corpo e soprattutto alla mente, la mia.
Guardo i dolci monti che circondano il paese e mi chiedo quanto resisterà la mia terra, ho il forte dubbio che questa calma celi in realtà molti contagi che scoppieranno da un momento all’altro.
Ricevo notizia di Radio Garden, un sito che racchiude tantissime radio on line: una mappa del mondo con tantissimi puntini colorati, ogni puntino una radio. Si va col cursore su una zona e automaticamente si sente cosa trasmette in quel momento quella stazione. Arrivo a ora di pranzo così: viaggiando tra Modica, Milano, Islanda, New York. Poi mi fermo su Rabat. E per un momento, evado. Via radio ovviamente.
Quando potremo ritornare a viaggiare?
Il pomeriggio con i miei facciamo il pane e una torta e il tempo vola via fino all’aperitivo che anche qui sto cercando di imporre.
La sera, dopo cena, scendo un attimo giù a prendere aria e chiamare un’amica, la telefonata dura un po’ ma io non mi sposto molto dal portoncino di ingresso: ho letto che chi è beccato a passeggiare senza alcun motivo, può avere grossi casini e in più passano davanti a me due cani randagi che avevo visto qualche giorno prima alla stessa ora. Vederli tranquilli così, in mezzo alla strada deserta, mi impressiona.
Mi viene da pensare a una trasmissione che avevo visto tempo prima, che mostrava come cambiava il mondo dal momento in cui l’uomo si estingueva, come la natura si impadroniva di nuovo della terra.
Mi ricordo che, tra le varie ipotesi di estinzione, c’era proprio un virus.
C’è un termine per indicare la realtà che imita la distopia?
Oggi sarei dovuta andare a Roma da un’amica, in questo momento sarei dovuta essere a un concerto con lei. Salgo in camera mia e mi metto a letto.
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Paranoia. L’aspettavo ed è arrivata questa notte. Già la sera prima ero stranita, la notte poi il disagio è scoppiato. Forse è meglio tenersi occupati e lavorare, in settimana ero stata meglio.
Per fortuna mi aspetta la solita spremuta d’arancia. Quando dicono che le arance qui sono speciali, è vero. Sembra di bere il sole.
Cercando di mantenere le buone abitudini, la mattina sistemo camera mia mentre i miei puliscono casa. A metà mattina raggiungo mio papà in balcone. Leggiamo entrambi in silenzio, c’è quiete ma sento parlare al telefono e visto che l’argomento è sempre il solito, mi infastidisco.
All’improvviso arriva un odore fortissimo, qualcuno sta arrostendo in balcone. Sono i miei vicini, anzi c’è solo il papà fuori che griglia.
Di solito questi sono momenti conviviali, iniziano presto la mattina e finiscono che è quasi buio, un’occasione per passare insieme le domeniche. Oggi non è così.
Per un attimo chiudo gli occhi e vengo catapultata a tempi che furono, tempi proibiti.
Per fortuna spunta mia mamma vestita e truccata di tutto punto, è il momento videochiamate.
Dopo pranzo, torno in balcone a bere il caffè e vedo la solita coppia di gatti appollaiati su un cancello.
Forse dovrei sforzarmi a pensarmi gatto e non topo, in questo momento.
Un bellissimo gatto d’appartamento, da sempre in reclusione.
Nel pomeriggio, un rapido tour online del museo Hermitage e poi coi miei prendiamo una decisione: ogni giorno faremo ai ferri un cuoricino di lana; ogni cuoricino sarà più grande di quello del giorno precedente di due punti. Come testimonianza della durata della nostra reclusione. Una volta finito tutto, doneremo questi cuoricini alle persone da cui siamo stati lontani.
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Ricomincia la settimana e oggi ho una giornata impegnativa. Sveglia alle 7, devo essere pronta alle 8 e la mattina sono sempre lenta. Normalmente, un giorno così mi avrebbe infastidito ma stavolta è diverso, sono contenta: so che quando alzerò la testa dal computer sarà ormai quasi sera e non avrò neanche avuto il tempo di realizzare cosa sta accadendo.
Infatti è così che va, la mattina vola, pranzo in dieci minuti e il pomeriggio passa così veloce che quando scendo in cucina è già ora del solito bicchiere di vino coi miei.
Parte la videochiamata di famiglia. Stavolta proviamo con Skype ma è un disastro, urlano tutti, non si capisce niente.
Inizia Montalbano, il tempo di vedere la spiaggia, mi prende la malinconia e mi addormento.
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Qualche anno fa, nella serie tv The last man on earth, il protagonista era l’unico superstite sulla terra. Un virus aveva fatto morire tutti.
Ricordo che era super divertente ma le poche volte che si riferivano al passato, a quando il virus stava uccidendo la gente, mi veniva la pelle d’oca e, guardandomi intorno, mi rallegravo del fatto che non era quella la realtà.
Adesso, invece.
Ho finito il libro che avevo con me quando sono arrivata qui. Dopo un momento in cui leggere era l’ultima cosa che avrei fatto, ho ricominciato.
Sono andata su internet per comprare qualche libro ma, mentre procedevo all’acquisto, ho sentito che non era la cosa giusta. Era come ostinarsi a vivere una vita che, al momento, era in attesa. Ho chiuso il pc, sono andata alla libreria in casa e, dando un’occhiata alle copertine, ho scoperto che molti testi erano miei, li avevo letti quando ero ragazzina.
Ci si accorge di molte cose quando ci si prende il tempo di osservarle.
Lì nell’angolo, un libro che avevo letto alle superiori ma che non ricordo affatto. L’autore è un mio compaesano. Inizio a leggere e, con mia sorpresa, scopro che è ambientato a Modica. Sorrido.
Quando ascolti profondamente te stesso, quelle che sembrano coincidenze, non sono affatto tali.
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Passo di call in call oggi, da un auricolare all’altro, pc poi telefono poi di nuovo pc.
Da questa mansarda, di 5 metri quadrati o poco più, comunico col mondo.
Tutti lo fanno, adesso.
Non esco da lunedì scorso. All’inizio scendevo la sera per andare a buttare l’immondizia, mi sembrava importante prendere una boccata d’aria. Ma un po’ la visione del paese deserto, un po’ che durante la giornata vado sul balcone, fatto sta che non ho più voglia di andar fuori. Ho paura di perdere la voglia di uscire. Temo diventi per tutti noi normale questo vivere.
Vorrei che questo non fosse mai successo. Vorrei uscire e vedere gente in giro, e andare al bar e non aver paura di abbracciare qualcuno.
Le ripercussioni di questo tempo andranno ben oltre il tempo stesso.
Tremo alle conseguenze che avranno su di me, empatica di natura.
Un po’ come l’11 settembre.
Non mi sono mai ripresa da allora, ho ancora le cicatrici di quell’epoca.
Chissà adesso. L’immagine dei camion militari in fila per portare le bare ai crematori di altre città, è forte quanto quella delle Torri Gemelle solo che lì il nemico era visibile, qui no. E quella scena potrebbe riproporsi ovunque da un momento all’altro.
La sera, lunga videochiamata con gli amici aperitivo incluso. Alcune cose non cambiano, per fortuna.
L’angoscia sale la sera, me lo confermano in molti. Vorrei capire perché.
Se è connessa al buio mi rallegro che ci sarà sempre più luce.
Almeno a questo servirà la bella stagione.
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Non sono in gran forma ed è subito angoscia. Curioso come, oggi più che mai, siamo fatti di porcellana. Basta una minima vibrazione a frantumarci.
Ed è globale quindi un problema non è solo tuo ma tutti, in un modo o nell’altro, lottano in questo momento per stare su. In questa sofferenza mi sento parte di una comunità.
La stessa sensazione che si prova a un concerto, un respiro unico invade la platea e tu guardi gli altri e ti rivedi in loro. Lo stesso, ma al negativo.
Devo subito trovare il modo per stroncare queste parentesi di disagio, non ne so molto ma potrebbe aumentare man mano che passano i giorni in casa.
Ogni mattina inizia con mia mamma e col caffè. Venti minuti di serenità.
Mi aiuta a concentrarmi su quello che dovrò fare oggi, come se fosse la normalità.
A lavoro ricevo una bella notizia. Mi riguarda da vicino. Sono frastornata, è come se mi fosse arrivata eco di una vita che non è più, almeno non ora, e non so come comportarmi.
Questi giorni in sospeso, cancellano il pensiero del futuro.
E’ la festa del papà e l’onomastico di mio zio, ci scambiamo auguri cumulativi in chat.
Domani è primavera e i miei occhi, incuranti delle notizie di cronaca, puntuali iniziano a lacrimare.
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Dalla mia finestra vedo la vicina in balcone che stende i panni o con una fune sale la spesa da giù. Oggi piselli, avrà da fare tutta la mattina a pulirli e cucinarli. Per un attimo riesco a vedere l’interno di casa loro e sono tutti ancora in pigiama, il marito sdraiato sulla poltrona. Inizio a non sentirmi a mio agio quando vedo gente in pigiama, mi dà fastidio, penso all’ospedale o al lasciarsi andare, non so cosa mi spaventa di più.
Ho visto il meteo e da domani sarà brutto tempo. Dopo pranzo mi metto fuori in balcone a prendere il sole, devo fare il pieno per i prossimi giorni. Man mano che il sole si sposta, lo faccio pure io. Alla fine riesco pure a sdraiarmi e leggere. Dalla veranda vedo il cielo e i monti e per un attimo mi sento fortunata. Mi incanto a guardare le tortorelle che sfrecciano in aria e si fermano sui fili della luce, sono tutte piccoline saranno nate da poco. Sono carine e un po’ le invidio al momento.
Passa una volante della polizia che ferma un signore anziano e con gentilezza gli chiedono di tornare a casa. E’ lo stesso signore che ogni giorno lava due tre volte la macchina, un modo per passare il tempo.
Mi affaccio perché sento i soliti due gatti litigare e vedo il mio vicino. Arrivano pure i miei e sua moglie e ci parliamo dal balcone per un’ora. Anche loro cucinano per ingannare il tempo, oggi arancini. Domani ce li faranno assaggiare.
Stasera porto io giù l’immondizia. Le strade sono vuote, la sera è molto sera e io ritorno subito su, non ho voglia di vedere questa desolazione.
—
Oggi partecipo a un evento. Me l’ha segnalato ieri un’amica. Da qualche tempo ho scoperto l’interesse per i panel di discussione. Ricordo l’anno scorso al parco Indro Montanelli in bici a seguire gli incontri del Wired Next Fest. E i concerti di Pianocity.
Se dovessi identificare il mese della rinascita, credo sia maggio. Maggio a cavallo con giugno.
I pomeriggi sembrano non finire mai e la città sembra più umana e io insieme a lei.
L’evento, ovviamente, è virtuale. Studiosi, filosofi e psicologi si alternano in una maratona di dieci ore sui social. Gli argomenti sono vari e interessanti: al di là di tutto, lo seguo perché è gente della mia età sparsa per tutta Italia e, guardandoli, mi sembra un po’ di socializzare.
Curioso come ora la mia partecipazione a eventi virtuali sia reale. Prima invece, la mia partecipazione a eventi reali era pressoché virtuale.
L’idea di andare a una serata mi entusiasmava ma poi, presa da un sacco di cose, o mi dimenticavo o preferivo fare altro.
C’è brutto tempo. La ragazza cinese è sempre davanti alla finestra. Immagino di essere lei: guarderà la casa di fronte, la nostra? Immaginerà come passiamo il tempo? Non vorrebbe stare sola o le va bene così?
Siamo tutti nervosi oggi in casa. Non so come né perché, ma sentiamo la pressione del week end.
Mi sento in gabbia.
In Tv dicono che stanno cercando medici da inviare al nord. Avevo istintivamente scritto arruolarsi perché i media stanno trattando tutta questa situazione come una guerra o una partita, come una situazione da cui se ne esce vincenti o perdenti. Vivi o morti. Odio questo tipo di comunicazione perché è troppo semplicistica e non lascia spazio alle sfumature.
Vado a letto che c’è un vento che sembra tirare giù la casa. Ricordo che è lo stesso rumore di quando ero giovane ma adesso non sono più abituata. Mi agita e nello stesso mi fa avvertire la presenza del mare. So che è lì, nella direzione della mia finestra e del palazzo di fronte. Sono, di nuovo, su un’isola e il vento me lo ricorda.
—
Ricordo quando ero piccola, sere passate a giocare a nascondino. Non c’erano limiti, ci si poteva nascondere in tutto il paese e il gioco non finiva mai. Alcuni ne approfittavano per tornare a casa, scendere a spiaggia, fare una passeggiata.
La sensazione era unica.
Guardo i numeri: prima lombardi, poi siciliani, poi provinciali, infine quelli comunali.
In un certo senso è come giocare di nuovo: ognuno a casa propria, si sentono i passi del virus sempre più vicini, si vede l’ombra di un compagno scappare eppure si pensa a come salvarsi e quale sarà la prossima mossa.
Ma qui non c’è un modo per chiamarsi fuori dal gioco, per andare in piazza a prendere un gelato. Siamo tutti coinvolti, anche chi non vorrebbe.
“Fermate il mondo…voglio scendere” non è un’opzione.
Ma ci sarà comunque un poi e toccherà immaginarselo presto per non essere colti impreparati.
Indeboliti e depressi, non avremo il coraggio di uscire quando ci comunicheranno che si può. E allora bisogna prepararsi, mantenere un contatto reale col fuori per evitare che si crei quella mitologia in cui potrebbe incappare chi sta chiuso in un posto per molto tempo.
Fuori inteso non come quello di cui ci danno notizie giorno dopo giorno h24, ma come qualcosa che non sappiamo e che dobbiamo scoprire.
La curiosità sarà più forte della paura?
Non sarà più come prima perché noi non saremo più come prima.
—
Terza settimana di isolamento e penso che, quindici giorni fa, non avrei mai immaginato di stare in casa per così tanto tempo. E chissà quanto ancora.
Alla tv i medici annunciano che pare sia tornato l’inverno quindi la gente si raffredderà e questo manderà ancora più in tilt la Sanità. Guardo fuori dalla finestra e sì, hanno ragione.
Inizio a sentire freddo e credo di avere mal di gola. Il filo che mi regge sembra assottigliarsi.
Ogni tanto la vecchia normalità esce prepotente e mi fa guardare dall’esterno questa situazione. Non sembra reale, dà i brividi. Sono solo millesimi di secondo ma tanto basta per turbarmi.
Il lavoro per fortuna mi tiene impegnata tutto il giorno, finisco in tempo per fare un dolce con mia mamma e l’aperitivo online con i soliti.
Siamo tutti un po’ più mogi del solito, li guardo sullo schermo e cerco in loro i segni della reclusione come se fossimo a casa da dieci anni. Mi chiedo quando li rivedrò dal vivo. L’idea di riprendere una vita normale, si allontana. Non lo si capisce chiaramente ma è una serie di dati, frasi, opinioni da cui si deduce facilmente che no, neanche a maggio ne usciremo. Per ogni settimana che passa, si va avanti di un mese. Settimana scorsa speravamo si risolvesse ad aprile, questa settimana a maggio ma qualcosa fa già presagire che sarà giugno. Io ho in mente già l’estate, voglio immaginarmela prima di arrivare impreparata.
Mi metto a letto dopo cena e si scatena un’ansia feroce che non riesco a fermare. Fossi a casa mia sarei più attrezzata e saprei tranquillizzarmi, ma qui no. Mi mancano le mie cose.
Mi sento estranea, bloccata, sospesa.
—
Pare che dal 1945 al 1960 l’Italia sia esplosa in tutti i campi, arte, industria, economia. Dicono che potrebbe succedere anche stavolta. Dicono, forse, per farci stare più quieti.
Leggo una mail, sono stata selezionata per una mostra fotografica a Genova. Avevo inviato la richiesta prima di partire. Me ne ero quasi dimenticata. L’organizzatore dice che vorrebbe fare la mostra entro luglio sennò settembre.
Sì, sarebbe bello tornare a Genova con questo pretesto.
C’è ancora brutto tempo, freddo, il cielo coperto di nuvole tranne lontano lontano in direzione del mare. Chissà come sarà lì. Di solito c’è poca gente, figurarsi adesso. Un paese fantasma.
I giorni lontani da casa si fanno sentire, la mia cervicale, soprattutto, se ne accorge prima di me.
Faccio una video-call e, per la prima volta, uno dei partecipanti ha la mascherina. Mi impressiono, a pelle mi pare una violenza, un oggetto che nasconde, chiude la bocca invece che proteggerla. Forse le troppe serie tv distopiche, Hello Kitty. E’ più forte di me, anche dopo tutto questo pensare, una delle cose che più mi colpisce sono le mascherine e l’idea di doverci convivere mi fa imbestialire, mi sembra proprio una cosa contraria alla normalità della vita. Paradossale, perché in questo momento è un oggetto che la vita la salva.
Viviamo in contraddizione.
Forse è questo il motivo per cui non voglio uscire. Non la paura di infettarmi ma pensare di andare al supermercato indossando guanti e mascherina, vedere me e gli altri in fila per comprare da mangiare, ecco, credo che da questa visione di miseria non potrei riprendermi. Costantemente bombardata dalle immagini in tv, viverle sarebbe troppo.
So anche che stare a casa mi creerà altri problemi ma al momento si tratta di scegliere quello minore.
In questo momento non esiste facoltà di scelta.
—
Mi è chiaro che, per ora, un giorno è sì, uno è no.
C’è una tempesta violentissima. E’ inverno, fa freddo e non c’è luce. Io che, tra le altre cose sono anche meteoropatica, non voglio alzarmi dal letto. E non mi pare affatto strano, ho le mie motivazioni.
Poi penso alle cose da fare e mi metto in piedi.
Riesco finalmente a connettermi a una lezione on line. Mi ero iscritta prima, ero riuscita a partecipare di presenza a un incontro e poi era successo, l’università aveva interrotto l’attività. Pensavo di dover rinunciare quando mi è arrivata una mail che annunciava la ripresa delle lezioni in modalità on line.
Credo che sia fondamentale, in questo momento, avere degli appuntamenti fissi durante la giornata e la settimana. Impegnare la mente, studiare e conoscere.
Non è la vita che vorrei fare ma mi sono impegnata per renderla più mia possibile, oggi.
Vedo i partecipanti alla video-lezioni, immagino che siano la maggior parte lombardi. Mi sento lì un po’ anche io. Sperimento una nuova forma di nostalgia, vorrei tornare alla mia routine ma non posso, è vietato. E questo divieto è nuovo per me, siamo estranei a questo tipo di ordini dall’alto, questi controlli.
Il pensiero che, uscendo, qualcuno mi può fermare per chiedermi dove sto andando, mi fa soccombere. Preferisco stare a casa. So che ci dovrò convivere, almeno fin quando la situazione non migliora.
Il professore parla, si vede che anche lui è contento di occupare la testa altrove, per due ore. In lontananza sento per tre volte il suono delle ambulanze. Vengono dal suo microfono, anche lui sta a Milano.
Alla fine della lezione dice che oggi ne ha sentite di meno, di ambulanze.
E’ fiducioso.
Ci saluta con un “state bene, resistiamo”, carico di verità.
La sera festeggiamo il compleanno di mio zio on line, il solito casino, la bimba urla, gli altri parlano uno sull’altro, non si capisce niente. Mia mamma ha fatto pure la torta budino a mio zio che, dall’altra parte dello schermo, è ancora in ufficio. Mio cugino accende una candela virtuale sul budino, reale.
Ridiamo ripromettendoci che festeggeremo come si deve, dopo.
—
Ancora pioggia. Tutto il giorno, incessantemente, sembra quasi una di quelle giornate “perfette” a Milano quando mi svegliavo, indossavo il mio poncho di lana sopra il pigiama e dietro la porta della camera trovavo le mie gatte che, puntuali, mi aspettavano. Ogni giorno alla stessa ora.
Ma mi trovo altrove e tutta questa umidità, inaspettata, mi fa male. Ho il terrore che mi venga mal di gola. Ho il terrore di andare nel panico se mi viene il mal di gola.
Continuo a essere molto impegnata quindi mi distraggo. Sono preoccupata per l’avvicinarsi del weekend.
Se dovessi misurare il tempo che passa e quanto lunga è la permanenza in un luogo, lo misurerei con i tubetti di dentifricio. Un tubetto è un tempo, lungo abbastanza per dire che quella casa, per ora, è la tua casa.
Mi accorgo che il mio tubetto sta per finire.
—
Oggi video-call tutto il giorno. Sono connessa con gente da tutta Italia, chi sta sul lago di Como, chi a Verona, moltissimi a Milano. Cerco di capire, dalle loro facce, se sono preoccupati ma non riesco. Certo, siamo tutti contenti di avere altro per la testa almeno per sei ore, oggi.
Leggo un messaggio di un mio amico, che io reputo una persona sicura di sé, mi scrive che è contento della sua vita, che ci pensava da un po’ ma questo isolamento forzato gli ha dato il coraggio di dirlo a voce alta.
Forse anche io penso la stessa cosa.
Mi vengono in mente scene, come fossero frammenti di film, di me e Fabio a Napoli, io persa a Roma, io e Ilaria a Milano. Normalmente, sarebbe già iniziata la stagione della bici e degli appuntamenti al pomeriggio per aspettare insieme la sera. Mi manca tutto questo e lo scrivo per non dimenticarlo.
Sento un amico di Roma che da poco ha avuto una bimba. Mi manda una foto e un video, sono bellissimi. Organizziamo per vederci uno di questi giorni.
Sto dando fondo a tutte le riserve di positività. Il mio cervello scandaglia alla ricerca di cose che mi fanno star bene e ne trova, eccome.
Dopo il lavoro sento i miei che seguono la messa del Papa, dalla mia camera, senza vedere, so già che è una cosa sconvolgente e che mi traumatizzerebbe, tipo fine del mondo. Decido di non scendere a guardare, vedrò delle foto successivamente e sì, è apocalittico.
Scendo in cucina perché è il momento della gara di pizza con Fabio, Ilaria, Daria, i genitori di Fabio e i miei.
Con mia mamma sperimentiamo l’impasto della pizza romana che è la mia preferita, forse per il fatto che a Roma sono legata da ricordi bellissimi. Ne facciamo di due tipi.
Sono buonissime, da leccarsi i baffi.
Man mano mi scrivo tutte le ricette.
Facciamo l’aperitivo insieme mentre finiamo di preparare, mi ci sto abituando.
Poi penso che questo non sarebbe mai successo se non fosse per questa situazione.
Se sei sola a casa non chiami nessuno perché sai che è impegnato o perché credi che lo sia. Questo momento unisce e ci si sente paradossalmente meno soli, si vedono più gli amici, anche se solo virtualmente.
E scrivo anche questo, per non dimenticarlo.
Seguo il consiglio di tutti e dopo cena vado a buttare l’immondizia e a fare una passeggiata. Non ho ben capito la legge quindi, appena sento una macchina che passa, cambio strada. Sono spaventata ma non più per le strade vuote, quanto per le persone che potrebbero vedermi e, non so, denunciarmi. Sto comunque fuori un bel po’, cammino e tengo gli occhi su per guardare le luci in casa e le stelle, oggi, dopo giorni di pioggia, ce ne sono un bel po’.
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Continuo ad avere mal di testa, mi succede quando dormo a lungo in un letto non mio. All’inizio sembra che vada tutto bene, mi sveglio riposata ma evidentemente il mio collo già accusa. E poi arriva il dolore che non mi abbandona per qualche giorno. Mi abituerò, anche a questo.
Oggi è il compleanno di Valentina, ci sentiamo in video-chat, ha ordinato il sushi e una torta. Beve una birra.
Dice che le fa impressione andare a fare la spesa, la fila, la mascherina, le manca il fiato e le viene l’ansia.
La sento molto vicina. La capisco.
Poi c’è la voce che gira per le strade a ricordare di stare a casa, a tutti fa impressione e penso che, davvero, siamo sulla stessa barca. Ognuno con le sue paure che, oggi, sono di tutti gli altri. Una comunanza straordinaria.
In serata sento Fabio, dice che ben cinque carabinieri sono saliti dal vicino che mette musica. Qualcuno li aveva chiamati per farlo smettere. Di per sé sembra normale, sulla social street giustificano l’accaduto dicendo che, forse, c’è un malato o qualcuno che ha perso una persona o un lavoratore che fa i turni di notte e che deve dormire. Insomma gente che ha un motivo per non voler sentire musica ogni giorno dalle 20 alle 20.30. Tutto possibile e giustificabile ma c’è una strana eco, eco di totalitarismi.
Se è vero che lo Stato sta cercando di proteggere la salute delle persone, non è forse salute anche quella psichica?
La gente chiusa in casa, implode e, forse, fra qualche mese il problema non sarà il virus ma qualcos’altro.
Vado a letto e mi arriva una mail dalla Regione Sicilia. All’inizio dell’isolamento mi ero iscritta a un sito dove censivano la gente venuta dal nord. Ora scrivono che sono tenuta a dare aggiornamenti due volte al giorno sulla mia salute. Ok.
Penso a quella volta a New York quando stava per arrivare l’uragano e sul telefono arrivavano i messaggi della Farnesina che, in quanto cittadini italiani, ci invitavano a segnalare dove stavamo e se eravamo al sicuro.
Ricordo che mi ero sentita come un gigantesco occhio di bue puntato addosso.
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Un po’ di sole oggi. Di mattina finisco di pulire la camera e corro a leggere sul balcone.
Il cielo è piano di nuvole, il bel tempo non durerà molto. Ne approfitto.
Rientro in casa. Oggi sono inquieta, mi sento in gabbia, di nuovo.
Questa situazione mi pare folle.
Messaggio con un’amica e mi rendo conto di essere al momento, tanto preoccupata dal virus quanto dalla vita normale che non tornerà facilmente. Ho perso interesse verso i bollettini e i numeri. Vorrei sapere solo quando ci sarà un significativo calo che non dia adito a mille interpretazioni. E da lì, una previsione per il futuro.
Il pomeriggio, appena vedo il sole che gira dietro casa, mi precipito sull’altro balcone, giusto 10 minuti di caldo sul viso poi di nuovo nuvole.
Oggi scatta l’ora solare. Di solito questo mi fa gioire ma stavolta è diverso.
Torno dentro, in tv c’è il Kilimangiaro: si va a Cuba e in Giappone. Vedere gente che cammina per le strade e in mercati affollatissimi, mi provoca un rossore come da cosa proibita. Ora non si può più fare, e infatti c’è una scritta in sovraimpressione che dice che i video sono stati girati prima del lockdown.
Approfittando che è ancora giorno, esco a fare due passi ma mi sento a disagio. Ho paura di non poterlo fare, non so quanto posso allontanarmi e le strade mi fanno impressione, sono deserte. Qualcuno, appena sente il portoncino aprirsi, si precipita fuori in balcone. Mi vogliono denunciare? Non sto facendo niente di male. Li saluto?
Vedo una ragazza giovane camminare messaggiando col telefonino. Ha su la mascherina, quella col filtro. Distolgo lo sguardo, mi fa impressione. Non capisco che senso abbia la mascherina se in giro non c’è nessuno. E se restassero queste abitudini anche dopo? Qualcuno crede sia inevitabile…
Sento Giorgia, neanche ora rinuncia al pranzo domenicale con le sue amiche. Sono contenta, le loro abitudini danno anche a me una parvenza di normalità.
Mentre sto per andare a letto, penso a una tempesta.
La tempesta. Potrebbe forse essere la metafora giusta per questa situazione?
Il mare in tempesta, il capitano che fa delle manovre sperando che funzionino. Non può esserne certo. L’unica è aspettare che il mare si calmi, sperando che la barca tenga e non ci siano troppi danni.
Vengo svegliata da un rumore. E’ impercettibile ma, con tutto questo silenzio, lo sento eccome. Non capisco cos’è. Torno a letto e lo sento di nuovo. Mi alzo, scendo e trovo mia mamma, anch’essa sveglia. Dalla finestra vedo delle luci blu, un’ambulanza senza sirene. Esco in balcone e stanno portando via un’anziana. In silenzio, tutti sono affacciati a guardare. Tutti sperano di non assistere a quelle scene che ogni giorno danno in tv. Ritorno a letto.
Un mese qui, oggi.
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Un lunedì. Uno di quelli che proprio, vorrei restare a letto. Nuvolo, grigio, sta per piovere. E poi un freddo che proprio non me lo spiego, qui, ora.
Decido che oggi metto l’automatico, l’obiettivo è arrivare, possibilmente senza mal di testa, al tardo pomeriggio. Lavoro, pranzo, mi riposo, lavoro.
E poi, ancora giorno, scendo sotto casa a prendere un po’ d’aria. Sto un po’ davanti al portoncino di ingresso, vado poi verso lo spiazzale davanti e noto che la tendina della vicina si sposta e lei guarda da dietro i vetri. Comincio a pensare che non sia un caso. Ogni volta che esco, li vedo: o il marito che fuma, ora lei al telefono. Chi starà chiamando? La polizia, forse? Sembra da pazzi, ma di questi tempi chi può dirlo. Se uscisse fuori la saluterei ma non lo fa.
Torno a casa. Riproverò a uscire di notte, di giorno dà troppo nell’occhio. Non ho alternative.
La sera, dopo cena, mi metto subito a letto e guardo un documentario sul sito dell’Ischia Film Festival che ha reso disponibili i film in archivio. Non lo conoscevo ma, se potessi, mi piacerebbe andarci.
Scelgo un film a caso, dal titolo, e mi meraviglio perché l’argomento è il solito, quello che, a fasi alterne, è sempre nei miei pensieri.
I piccoli paesi ai margini del mondo, la vita quieta, l’opportunità di rinascita.
Dobbiamo custodire i nostri sogni durante questa tempesta.
Anche se sono molto impegnata durante il giorno, è come se, tolto il rumore di fondo, della città e delle mille piccole costrizioni che ognuno di noi si crea, fossi in costante riflessione.
Alcune cose si rivelano, chiare, nei momenti più impensati.
Forse è la situazione, forse è il ritorno al paese. Forse entrambi.
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Da qualche giorno non mi interesso quasi più, come se facessi una vita normale in una condizione che non lo è.
Mi basta comunque andare un attimo sui social per essere inondata da informazioni, previsioni, opinionismi.
L’unica certezza è che non si può uscire. E se uscissimo, vanificheremmo gli sforzi fatti finora perché il virus è in giro.
E se anche il virus non ci fosse più, noi avremmo la paura che ci sia.
Sono incredula che, in così poco tempo, siamo arrivati fin qui.
Incredula e davvero molto arrabbiata.
Mi viene in mente un esperimento in cui veniva messo un GPS a dei gatti per vedere dove andavano quando non erano in casa dei padroni. Ne veniva fuori un gigantesco e curioso gomitolo di percorsi che mostravano La vita segreta dei gatti.
Un GPS per la nostra vita segreta?
Per fortuna oggi riesco a mettermi fuori sul balcone. C’è il sole, vengono pure i miei. Guardiamo i monti intorno, come se fosse la prima volta. Sono bellissimi. Mia madre mi racconta di una cava, lì in mezzo ai tornanti che di solito facciamo in macchina. Ci è andata una volta a piedi in gita coi colleghi. Non ne ho mai sentito parlare. Mi dice che appena possiamo, ci andiamo.
Silenzio.
Ancora con la luce del giorno, faccio un aperitivo in video. Le giornate si sono allungate, quando sono arrivata qui era praticamente ancora inverno.
Dopo cena con mia mamma andiamo a buttare l’immondizia e facciamo un giro vicino casa. Citofoniamo ad amici di famiglia che abitano non lontano. Stavano quasi già dormendo. Si affacciano timidamente al balcone e ci salutiamo in silenzio. Probabilmente hanno paura che i vicini se ne accorgano. Al ritorno vedo mia mamma col sorriso.
E’ stato bello, dice.
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La giornata inizia con una riunione alle 8. Mi sveglio alle 7 e trovo in cucina il Papa che, come ogni mattina, dice la Messa. Se non fosse che so chi è, sembra un prete qualunque, anziano e provato, quasi sentisse personalmente il peso di tutto quello che sta accadendo. Non che bisogna essere Papa per provare empatia, anzi. Lui però non nasconde di provarla, non se ne vergogna come invece fanno gli altri. E’ questo che lo rende speciale.
Persa in queste considerazioni, mi accordo di essere in ritardo. Le cattive abitudini sopravvivono a tutto.
E’ un susseguirsi di call e mail. Nel pomeriggio, la lezione sulla psicanalisi, sempre in video.
Alzo gli occhi dal computer, le nuvole si sono diradate è arrivata una bellissima luce.
E’ la mia happy hour: videochiamo Fabio e mi metto seduta sul balcone con la coperta addosso.
Capita spesso di pensare al dopo anche se razionalmente si professa il contrario.
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Scene di film apocalittici mi sorprendono mentre faccio altro. Quella più ricorrente è quando, dopo un susseguirsi di segnali non incoraggianti, il mondo cambia irrevocabilmente e ci si ritrova in una situazione che solo qualche mese prima sarebbe stata di fantasia.
Quando si verificano questi cambiamenti, chi li vive, come li percepisce? E se con il 10 marzo si fosse definitivamente chiusa un’era? Avremmo il giusto distacco per accorgecene?
Mi piacerebbe iniziare questa fase in cui, ahimé, siamo stati catapultati, con ancora più consapevolezza di prima, non vorrei subire questo nuovo modo di vivere, vorrei decidere cosa è meglio per me.
Se tutto cambierà, siamo davanti a una tabula rasa, un mondo di opportunità. Non ricadere nelle proprie prigioni. Cambiare le regole del gioco.
Su questo mi interrogo mentre, quotidianamente, vivo.
Ho letto che c’è chi soffre perché non ha stimoli esterni e chi non ne può più di vedere sempre la stessa immagine alla finestra. Effettivamente anche io, malgrado sia tutto il giorno impegnata, sento una noia di fondo che, forse, riguarda più ciò che vedo che ciò che faccio. Ogni giorno lo stesso panorama per me che adoro andare a piedi, in bici, sui mezzi, solo per il gusto di guardarmi attorno. E questo, anche se non trovavo le parole per dirlo, mi manca. Guardare attraverso uno schermo non è affatto la stessa cosa. Guardare non interessa solo gli occhi ma tutti i sensi: un paesaggio è anche suono, odore, tatto e a volte anche gusto.
Ci sarà ancora spazio per tutto questo?
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Sono stanca, credo di dormire bene la notte ma forse non è così. Vado a rilento oggi e non vorrei mettermi al lavoro. Arrivo facilmente alla pausa pranzo e mi riposo un po’. Nel primo pomeriggio caffè e di nuovo al computer.
Esce il sole ed è come rinascere.
Arrivo a fine giornata e scendo a cucinare con mia mamma.
C’è ancora così tanta luce, adoro le giornate lunghe, anche adesso che siamo chiusi in casa.
E’ come vivere due volte la stessa giornata.
Arriva il consueto momento della video-call del venerdì. Daria si aggiunge dopo, giusto in tempo per vedere il sole che si tuffa nel mare, proprio fuori dalla sua finestra.
Sapere che non sei solo, fa bene.
Prima di cena vado a fare il giro del palazzo con mia mamma, il deserto. Risaliamo, ceniamo e inizia Propaganda live. Dura così tanto che, verso la fine, mi addormento sul divano. Mi sveglio alle due e mi passa il sonno.
Oggi è stata una giornata no, ho sentito, mio malgrado, troppe voci, troppe opinioni, troppe previsioni che non servono a niente se non far deprimere le persone. E’ chiaro che non bisogna disperare.
Mi riaddormento alle tre.
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Mia mamma compie gli anni e oggi è dedicato a lei. Festeggiamo il primo compleanno, qui.
La mattina prepariamo una crostata crema e fragole che sembra proprio venga da una pasticceria.
E’ bellissima e siamo orgogliose di noi.
A pranzo pasta con le vongole e vino. C’è anche il sole, fingiamo che sia un sabato al mare. Un sabato di prima.
Nel pomeriggio, assaggiamo la torta e sì, è bella ed è anche buonissima. Ne portiamo un pezzo ai vicini.
Dopo, approfittando del clima mite ci mettiamo un po’ fuori e, per la prima volta, i miei si perdono il bollettino delle 18 della Protezione Civile.
Inizia un po’ a fare freddo e salgo in camera ad assistere un po’ alla maratona live di filosofia, accendo ed è il momento di Franco Arminio, lo ascolto e mi pacifico. Per lui questa disgrazia è un’opportunità per riflettere, su di noi, sul nostro rapporto con la natura, con l’altro, con Dio e anche io ne sono convinta anche se, inizio a pensare che non sarà così per tutti.
Assisto al tramonto, è rosso, la luce che arriva in camera mia lo è di riflesso, inizio a pensare come sarebbe al mare e inizio a sentirmi un po’ stretta tra queste mura. Mi viene il magone pensando alla giornata di oggi.
E se il dopo fosse tutto così? Un continuo cercare di tener vive consuetudini del passato, come fossero riti di poco senso ma importantissimi per continuare a vivere?
Per fortuna non ho molto tempo per approfondire l’argomento, oggi è dedicato a mia madre.
Scendo, è l’ora dell’aperitivo: favette fritte e vino come fossimo a Scicli. E video-chiamate di gruppo per gli auguri.
Mia mamma inizia a friggere il pesce ed è tutto buonissimo.
A fine serata ci ringraziamo, si vede che è contenta.
Il mondo è fatto di foglie, di nuvole e di essere umani, ha detto oggi Arminio.
E oggi mancano tantissimo.
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Giorno di pulizie, le faccio di mattina così da avere tutto il giorno libero.
Che paradosso.
Nel palazzo di fronte, le figlie dei vicini parlano affacciate al balcone. Qualcuno passa l’aspirapolvere e ascolta la radio. Le finestre sono aperte oggi, e lo saranno ancora più spesso man mano che arriverà la bella stagione.
Rifletto che qui, molta gente della mia età vive stabilmente a casa coi genitori. E’ usanza, case grandi con più nuclei familiare.
Verso le 11 mi metto sul balcone al sole ma combatto con altri pensieri. Sono annoiata e inquieta. La signora di fronte mi dice che oggi fanno il pane e le pizze, in fin dei conti è domenica. Con una fune, il marito trasporta da giù il secchio con la legna per il forno. Si occupa così il tempo.
Sono nervosa, forse perché, appena sveglia, ho guardato un video e ho scoperto di non essere estranea a nessuna delle paure dette.
Ma più di ogni altra cosa, mi è rimasta impressa una frase che credo di aver letto in un commento di un post, una madre che scriveva che il figlio piccolo non voleva più uscire per paura di provare nostalgia verso qualcosa che non potrà più avere. Sicuramente la madre esagerava, magari il bimbo non provava un’emozione così articolata però il senso era quello.
Ecco perché adesso mi intristisco se vedo trasmissioni in tv che riguardano il prima, viaggi, ristoranti, gente (più o meno) libera che va in giro, che si abbraccia, che incontra ogni giorno decine di sconosciuti.
Più passa il tempo, più si dispera, si perde la speranza di vedere, toccare, vivere qualcosa, il mondo di prima, forse.
Vado a letto subito dopo cena, riesco a vedere per intero un film insieme a Fabio e lo commentiamo insieme con messaggi e telefonate. E’ casa.
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Cedimenti: difficoltà ad alzarsi da letto, voglia di ritornarci subito dopo. Non lavarsi i capelli. Evitare lo specchio. Andare col pilota automatico fino a sera. Essere spaventata da improvvisi squarci del prima che affiora. Una tristezza che accascia, ancora e ancora. Cercare di mantenere le apparenze perché siamo tutti su questo pianeta, nella stessa situazione. Nessuna via di scampo.
Il tempo passa, lento e veloce insieme.
Cosa ho fatto in questi ultimi sette giorni? Ho vissuto? Si può chiamare così il tempo che passa informe?
Bisogna coniare nuovi termini, assumersi la responsabilità di guardare in faccia la realtà e darle il giusto nome.
Ho smesso di contare da quanto non esco, non guido, non vedo altre persone. Non mi chiedo quanto potrò rifarlo. Non voglio illusioni. E rifarlo non alle stesse condizioni, per me, non è ancora un’opzione accettabile.
Che vita è una vita che per proteggere sé stessa toglie il respiro, il sorriso, la parola, gli abbracci.
Certo, c’è gente che muore e sta male ma, almeno qui, non voglio censurarmi. Quindi mi chiedo ancora: che vita può essere?
Ci si adatta a tutto, è una qualità, ma se la resilienza diventa vittima di sé stessa non è forse ottusità?
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Nessuna illusione, non esistono i miracoli.
Guardo il meteo oggi, dopo tanti giorni. Da domani sole, finalmente. Che poi non so se è peggio.
Non so se c’è un peggio in questo gigantesco PEGGIO.
Le cose nuove mi hanno sempre messo la carica quindi all’inizio anche questa situazione, seppure orrenda, mi dava grinta. Pensavo potesse essere il segno di un cambiamento epocale, un’opportunità.
Mi aiutava pensare, mentre i contagi salivano, che eravamo liberi di progettare, senza regole, senza limiti.
Ma ora che la novità non è più tale, vedo chiaramente avvisaglie che questa situazione andrà a enfatizzare, nel bene e nel male, tendenze che già c’erano. Non credo che si sia riflettuto e si rifletterà abbastanza sull’impatto deleterio che l’uomo ha sulla terra, su uno stile di vita improntato allo sfruttamento, della natura e del prossimo.
Forse bisognerebbe essere ogni tanto un po’ pagani, pensare a quanto sta accadendo come un segnale di qualcosa che ci vuole far riflettere mentre pensiamo a come metterci in salvo, ovvio.
Se il dopo sarà vissuto come un tornare alla normalità e basta, allora questa è cecità.
A quel punto sarà la decisione individuale che, oggi più che mai, farà la differenza. Decidere come vivere non sarà solo vita ma atto politico.
Della serie: “Signore e signori, così io non ci sto, per cui mi dissocio e vivrò un’esistenza quanto più vicina a quella che vorrei fare”. Costi quel che costi.
Progettare quindi, in senso generale, in grande, in grandissimo.
Poi verrà il momento del costi quel che costi.
Stanotte il cielo è senza stelle e il mio sonno senza sogni.
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I miei sono super allegri, oggi fanno 39 anni di matrimonio. Lo ricordano sempre, non ogni anno festeggiano. Oggi è anche il giorno in cui è morto mio nonno. Non ce lo diciamo ma so che non lo dimentichiamo.
Mio papà va a fare la spesa all’emporio e torna con la macchina piena. Scendo per aiutarlo a scaricare, esco di fretta e quando oltrepasso l’uscio del portoncino mi blocco: forse è la luce eccessiva, forse l’aria, fatto sta che mio papà mi vede stranita e mi dice che è normale perché stiamo sempre in casa.
Porto tutte le borse in casa e prima di richiudermi il portoncino alle spalle guardo fuori, malinconica.
Nel pomeriggio mia mamma ha una videocall con tutti i colleghi e non sta nella pelle. Dopo il riposino inizia a prepararsi a lungo, la vedo vestita e truccata di tutto punto. Indossa anche le scarpe coi tacchi.
Nel frattempo io e mio papà facciamo l’aperitivo e mi aggiorna sul bollettino di oggi.
Arriva poi anche lei e nel frattempo chiama Fabio.
Iniziamo a parlare del dopo ma anche qui, blocco totale: non riesco proprio a immaginarmi questo dopo, malgrado tutto quello che dico sul progettare. Il pensiero di muovermi o che lui si muova, mi fa sentire a disagio. Come fosse una cosa proibita, da non pensare.
Cerco di sforzarmi a essere più pragmatica, divido la cosa in punti, cerco di risolvere il problema passo passo. Forse così, se penso alle singole cose da fare e risolvere, riesco ad andare avanti.
Anche lui sostiene che la cosa migliore è che scenda lui anche se più è più semplice che salga io a Milano.
Dice che non è bello stare a Milano per ora e rischiamo di starci tutta l’estate quindi meglio stare in Sicilia.
Forse possiamo stare a casa nella vecchia casa di mia nonna.
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Il più delle volte il paese è muto. Il silenzio è interrotto da macchine che passano. Poche.
Stamattina però sento delle sirene, una dopo l’altra. Si fermano vicino a casa, non capisco dove però. Mi affaccio e non vedo niente. Dopo poco i vicini di fronte ci dicono che si è sentita male una signora del palazzo di fronte.
Tutti pensiamo al virus. Dopo poco arriva la smentita, la signora era semplicemente svenuta. Niente di grave, un abbassamento di pressione. Come se non si continuasse a sentirsi male e a morire anche per altro.
Il virus ormai è il solo protagonista della vita e della morte di tutti.
Sarà per quello che stamattina c’era un’atmosfera rarefatta. Molti pulivano casa, i vetri. Pulizie di primavera.
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Stanotte non sono stata bene. Mi sono svegliata verso le tre con nausea e mal di testa. Ho preso una pillola e mi sono rimessa a dormire. La mattina mi sono alzata per lavorare e ancora non mi ero ripresa.
Dopo aver sbrigato le cose più urgenti, ho pensato che mi avrebbe fatto bene uscire, non tanto perché dovevo fare degli acquisti ma perché credevo che il sole e l’aria aperta mi avrebbero aiutato. In ogni caso mi sarei concentrata su quello e non sulla paura che mi venisse la febbre.
La vestizione, la prima dall’inizio del confinamento, è durata circa 10 minuti: autocertificazione, documenti, giacca, mascherina, occhiali da sole, scarpe e per ultimi, i guanti.
Esco dal portoncino, dopo un attimo di esitazione inizio a camminare, veloce come se scappassi da qualcuno. O da qualcosa, dalla casa in cui sono stata per gli ultimi 32 giorni, forse? I piedi andavano più veloci della mia testa.
Pensavo che avrei avuto paura invece no, mi dava solo fastidio la mascherina, si spostava, mi andava sugli occhi.
I guanti mi facevano sudare le mani. In estate come faremo?
Nel tragitto verso il negozio vedo persone in macchina, a piedi, davanti ai negozi. Quasi tutti con la mascherina ma non mi impressiono.
Un paese resta più umano di una città.
Arrivo davanti al negozietto e la cassiera mi fa segno di aspettare fuori. Anche questo pensavo mi impressionasse ma ci sono solo io, non le immagini di file chilometriche che vedo da un mese in tv.
Dopo neanche due minuti, entro. Ho un attimo di confusione perché ho tanto da prendere e sono scomoda. In 20 minuti compro di tutto. Mi accorgo solo adesso come mi sono mancate le mie piccole abitudini senza importanza.
All’uscita, faccio il giro largo per tornare a casa. Passo dalla via principale. Davanti al bar la solita scena: un gruppo di vecchi che parlottano, con l’unica differenza che ora hanno la mascherina e il bar è chiuso.
Un’ondata di normalità mi pervade. Il dopo dipende dal dove.
Torno a casa stanca, tutta sudata, in iperventilazione, come se venissi da un’escursione in montagna.
I vestiti che ho non vanno più bene, sta per arrivare il caldo che qui è senza mezze misure.
Non mi ricordavo più com’era la primavera qui.
—
Sveglia presto, dobbiamo impastare per fare le focacce. La cucina pullula di ingredienti, è piena di vita.
Mia mamma mi fa vedere come si fa la prima, poi inizio a farle io. Mi rilassano questi movimenti da fare, sempre uguali. Mi rilassano e sono brava. Ne faccio dieci più tre piccoli pani.
Finisco e sono soddisfatta. Mi sento un po’ rinata.
A pranzo la tavola è un allegro tripudio di sapori: focacce, pane fatto in casa, ricotta, provola, olive.
Quando finiamo di mangiare mi metto un po’ sul divano e appena sveglia vado sul balcone.
C’è tanto cielo e silenzio, interrotto solo dai versi degli uccelli e bimbi che giocano a palla nei cortili. Un senso di familiarità. Riconosco i suoni del paese in cui sono cresciuta.
Mi immagino una vita semplice, più vicina alla natura.
—
Pasqua.
Stamattina mi sveglio presto, faccio colazione e mi rimetto a letto fino a tardi. Fuori c’è il sole, di fronte i vicini sono indaffarati per il pranzo. Ognuno si occupa delle proprie cose, della propria famiglia, si respira allegria.
Mi dedico alla libreria di camera mia, ci sono tanti libri miei e molti che non riconosco. Finalmente decido di guardarli a uno a uno e scopro una copia del Decamerone del 1932, non sappiamo di chi è. Altri titoli ancora più vecchi, chissà di chi erano e come sono arrivati qui. Indagherò meglio.
Poi passo alle fotografie, inizio a sfogliare qualche album e vedo immagini di me bambina, dei miei genitori, nonni, zii e amici. Chiamo mia mamma e andiamo avanti insieme a guardarle. Decido di fotografare qualche immagine e inviarla. E’ la mia personale Pasqua. Gli amici, gli zii sono felicissimi, mi rispondono, scrivono “come eravamo giovani”, “quanti capelli avevo”, “che bei tempi”. Questa situazione collettiva fa sì che ogni gesto sentito, fa di sicuro piacere perché tutti in questo momento proviamo gli stessi sentimenti.
E’ un regalo e oggi questo è stato il mio, per me e per gli altri.
Pranziamo sul tavolo di vetro, come per tutte le feste. Di solito siamo in parecchi, stavolta solo noi tre.
Nel pomeriggio apriamo l’uovo come da tradizione: ogni volta le stesse frasi, gli stessi gesti. Non accadeva da tanto.
L’uovo è gigante, con ben due sorprese: un cubo di rubik e un minion. Mi stupisco che ormai le sorprese siano veri e propri regali, con una loro dignità. Fino a qualche tempo fa non era così: portachiavi orrendi, braccialetti finto argento che venivano distrattamente buttati con la carta dell’uovo e un esercito di peluche che solo a guardarli veniva l’orticaria.
Il pomeriggio al tramonto videochiamata con Fabio, Ilaria e i suoi genitori, spassosi anche ora. Mi ha fatto tanto piacere vederli, ci conosciamo da così tanto! Si è parlato di tutto, nessuno ha perso il suo smalto, il morale è alto.
Tutto è relativo e la gratitudine è un sentimento nobile che va coltivato ogni giorno.
—
Pasquetta.
Sto un po’ a letto poi mi alzo e mi vesto. Col computer mi metto al sole della mattina che è quello che amo di più in primavera perché riscalda l’aria fresca. Da qui vedo le montagne in due direzioni.
Ascolto in cuffia un pezzo che mi ha inviato Fabio. Dura 15 minuti, è ipnotico, ci ha letto delle parti di Conversazione in Sicilia che io avevo sottolineato. Il progetto si chiamerà Astratti furori. Mi fa piacere che, in qualche modo, io sia riuscita a trasferire dei miei interessi alle persone a me vicine, a lui. Intorno c’è silenzio. Malgrado la situazione, si percepisce che è Pasquetta. Arriva l’ombra, mi sposto sull’altro balcone. Vedo nuvole di fumo venire da sotto, mi affaccio e i vicini stanno preparando il necessario per arrostire. Sono in tanti, indaffarati, si sentono bambini che corrono. Si affaccia anche la vicina di sotto, ci parliamo e decide di salire per fare l’aperitivo insieme. Strano, prima saliva senza neanche chiedere, era normale. Ora invece chiede come se cercasse approvazione.
Con i miei, decidiamo di pranzare fuori, in veranda. Sono contenti, non l’hanno mai fatto. Qui non si usa abitare i balconi e gli spazi fuori.
Nel pomeriggio mi rimetto fuori al sole, c’è una famiglia di tortorelle che ha colonizzato il lampione di fronte e le osservo fin quando il sole cala.
—
Ho fatto un brutto sogno, non me lo ricordo ma mi sono svegliata con un’angoscia che è durata tutto il giorno.
Forse è per questo che, vestendomi dovendo scegliere tra i soliti tre capi, mi sono intristita. In un attimo sono stata investita dalla mancanza delle mie cose, dei miei affetti.
Mi metto a lavoro ma sono stufa, anche di questo. E’ una giornata no.
Sento mia mamma che parla al telefono con la sua amica e dice che ha l’allergia e che a guardare la tv si diventa scemi, ieri a cena c’era un servizio che spiegava come distinguere il virus dall’attacco allergico e si è spaventata. E come darle torto?
E’ così che vivremo, terrorizzati al minimo starnuto?
Mio papà esce a fare la spesa e torna con due canotte, una nera e una gialla. Di acrilico, terribili. C’erano solo queste al supermercato e vista la situazione le userò, almeno per allenarmi la mattina.
Nel pomeriggio vedo la vicina in terrazza al sole, col costume e il copricostume. Io non ho nulla, come farò quando arriverà il vero caldo? Comunque mi metto fuori anche io, penso che il sole mi può rinfrancare e infatti qualcosina fa.
Perché è questo che tutti stiamo facendo, chi con più successo di altri: passare il tempo.
—
Mi sveglio, ho caldo, percepisco che sta per arrivare la bella stagione anche se il tempo è mutevole.
Provo a indossare l’unica gonna che ho senza calze poi cambio idea. Mi rimetto i soliti leggins, la mia divisa.
Lavoro, niente di più.
Sono ancora angosciata, forse perché ieri è morto Mirko dei Camillas, un gruppo che adoro e che ho visto più volte dal vivo. Non l’ho saputo subito ma nel tardo pomeriggio quando, navigando su facebook seduta fuori in veranda, ho notato che tante persone avevano pubblicato La canzone del pane, un loro singolo. Pensavo fosse una delle tante trovate, forse qualcuno aveva fatto il compleanno, poi leggendo attentamente ho capito.
Nessuna iniziativa, solo dolore per la morte di Mirko che, senza ovvietà, era uno fuori dal comune. Un pazzo.
Era stato ricoverato a inizi marzo per Covid, contagiato probabilmente durante un concerto in Lombardia. Ho un vago ricordo di un loro concerto che con Fabio avremmo dovuto vedere all’Ohibò, ma poi non siamo andati.
Credo fosse il giorno prima del compleanno di Mattia, quando sia io che Fabio all’ultimo momento avevamo preferito non andare.
Penso alle agende funzionali di Ilaria e a quanto mi servirebbe in questo momento averne una così da verificare questa cosa. Buffo.
Immagino Mirko in ospedale da più di un mese: chissà come era ridotto, chissà se era comunque riuscito a mantenere la sua dose di follia anche in quella situazione. Sono sicura che anche in ospedale si sarà fatto notare.
Spero per lui di sì. Aveva 46 anni.
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Giornata uggiosa, triste. I miei sembrano strani, sarà che lo sono io.
Mi sembra tutto così immobile. Mi sento sola, apatica e angosciata, richiusa nella mia torre-mansarda, guardo il paese dall’alto. A destra il paese, a sinistra le montagne. Ogni giorno uguale.
Ieri mia mamma è uscita, era così contenta. Mi si è stretto il cuore a vederla così, tutta bardata.
Nel frattempo inizio a sentire sempre più discorsi sul dopo, sono spaventata.
Dicono tutto e il contrario di tutto, la fase 2 è quella di convivenza col virus, la più delicata.
Alla fine ora stiamo a casa e ci sentiamo al sicuro, che ne sarà in questa nuova era? Dovremmo mettere in conto la possibilità di contrarre il virus o che i nostri cari si possano ammalare, pena lo stare in casa a tempo indeterminato?
Mi aggrappo alle cose da fare, tutto pur di non fermarmi a riflettere.
Il momento più critico è l’ora dell’aperitivo, il mio preferito di prima.
Entro le 18 cerco di terminare tutto quello che ho da fare, perché arrivo esausta, poi c’è un lasso di tempo sospeso, che detesto. Vorrei essere per conto mio, con Fabio e gli amici a rilassarmi, seduti fuori a un bar.
Chi ci ridarà questa primavera?
Mi rendo conto, sentendo quello che sta succedendo in Lombardia, che tutti i sentimenti contrastanti che da qualche anno nutro verso Milano, sono lì: tutto bello e funzionale ma dentro profondamente marcio. Era questo che sentivo e che mi faceva impazzire anche perché a spiegarlo, non riuscivo.
Non sottovaluterò mai più le sensazioni e i disagi. Da ora in poi sarò coraggiosa.
L’empatia è un valore, non va censurata.
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Quarantesimo giorno.
Quando tutto questo è successo, nessuno immaginava sarebbe durato così tanto.
Dimentichiamoci la vita di prima per un bel po’.
Porto il latte alla gattina sotto. Prima qualcuno dell’ufficio qui vicino le dava da mangiare ma ora è chiuso e lei miagola in continuazione. Come se non bastasse, deve vedersela sempre con due gatti, uguali a lei ma maschi e grossi che la precedono in tutto. Per fortuna la trovo già davanti la porta, sola, ho la busta del latte in mano per cui lei sente l’odore e mi segue, facciamo insieme il giro dell’isolato. Poi le verso il latte in un piccolo recipiente e lei inizia a berlo. Resto a guardarla qualche minuto, poi risalgo.
Vorrei scappare lontano ma non posso.
Fine.
* un ringraziamento speciale a Ilaria ❤
* le foto, analogiche, sono state scattate con una Canon AE1.
Appartengono a un rullino iniziato nel prima e terminato nel dopo.